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CON IL PROFESSOR ANDREA RICCARDI AL FESTIVAL DELLA MENTE DI SARZANA

by Redazione

A Sarzana al Festival della Mente, giunto quest’anno alla quindicesima edizione, abbiamo incontrato il professor Andrea Riccardi, colui che cinquant’anni fa, nel 1968, è stato tra i fondatori di un sogno: la Comunità di Sant’Egidio, a Roma. Un incontro che ci ha emozionati e una lectio magistralis che ha ricevuto tantissimi meritati applausi. Riccardi, in libreria con Il professore e il patriarca. Umanesimo spirituale tra nazionalismi e globalizzazione (Jaca Book), ha invitato il pubblico a riflettere sul senso della comunità dal palco di un festival che si inserisce nel rinnovamento culturale del paese puntando su innovazione e creatività. Un’analisi di grande realismo dei cambiamenti in atto nella società, scevra di politichese, che parte dai bisogni della gente, dalla comunità intesa come ‘noi’ aggregante al di là dei particolarismi, unica realtà in grado di ricucire una società ferita e disgregata.

 

Il nostro primo incontro con la Comunità di Sant’Egidio risale al 2003 a Wine for Life, evento che allo scorso Vinitaly ha festeggiato 15 anni di vita. Con Wine for Life il vino diventa solidarietà, in questo caso specifico per la lotta contro l’AIDS in Africa, a sottolineare un’Italia che crea valore e valori. Ma è dal 2008 che la nostra fondazione appoggia concretamente Sant’Egidio per la realizzazione di progetti scolastici ed educativi in Uganda. Lo  scorso 5 febbraio, inizio del nuovo anno scolastico nella Scuola della Pace del campo profughi di Nyumanzi, vicino Adjumani, è stato inaugurato un altro blocco con quattro aule in muratura per offrire istruzione a bambini e ragazzi scappati dalla guerra civile del Sud Sudan. Una vera e propria esigenza vista la crescente domanda di iscrizioni nel 2018 (oltre 900). Basta considerare che più di un milione di rifugiati su due milioni e mezzo è ospitato in Uganda. “L’Uganda è un paese importante, accoglie tanti profughi. L’apertura di questa scuola crea sinergie tra realtà diverse che mostrano la volontà di non abbandonare l’Africa a se stessa. Parliamo tanto di migranti ma oggi il vero problema non è fermarli ma agire in Africa concretamente, affinché possano trovare attraverso l’educazione una vita degna. I profughi e i loro figli spesso sono profughi in e da se stessi. Sono storie di persone nel mondo che hanno conosciuto solo i campi di raccolta. Quindi diamo un futuro”, commenta Riccardi. “Conosco la vostra fondazione: è una storia molto bella, profonda, tipicamente italiana, ma che diventa universale. E sono contento di questa collaborazione perché è la sinergia tra realtà che non guardano solo all’interno della società italiana ma hanno uno sguardo sul mondo”.

 

LA COMUNITÀ IERI E OGGI. “Il vostro accorrere qui, a Sarzana, la vostra attenzione, le vostre storie diverse ci fanno sentire l’uno il bisogno degli altri, ci fanno incontrare, discutere. Viviamo una tensione comunitaria, uno sgretolamento del tessuto sociale. Da qualche tempo si esalta la libertà dell’individuo a scapito della dimensione collettiva. È molto importante per me parlare di comunità e sarebbe stato facile parlare solo di Sant’Egidio. Ma voglio provare a tracciare un percorso più ampio, perché comunità vuol dire tante cose, è una storia lunga come l’Umanità”. Inizia così la lezione di Andrea Riccardi. “Oggi più che mai c’è bisogno di comunità, di dramma, passione, partecipazione. Ma quale comunità? Sant’Egidio è la comunità che ho contribuito a fondare, a far crescere. È un’esperienza particolare, di solidarietà con i poveri, una comunità di destino di uomini e donne radicati in tante parti del mondo, anche a contatto con situazioni di dolore, di guerre. Poi ho pensato che avrei giocato facile. Però questa memoria dei cinquant’anni di Sant’Egidio mi ha fatto tornare al ’68, mezzo secolo fa. Allora comunità era parola, sogno, realtà e la comunità era un’esigenza molto alla moda, nei giovani dei paesi occidentali c’era una spinta alla socializzazione comunitaria. Mio padre si chiedeva perché noi studenti ci muovessimo sempre in branco. Io gli rispondevo ‘papà non è un branco è una comunità’. Lui mi guardava con aria dubitosa e non rispondeva. Noi ce la siamo conquistata la libertà per uscire dal branco. Ma non parlerò a lungo del ’68, abbiamo fatto convegni per questo. Il ‘68 è andato al di là dell’evento, è divenuto una categoria. Cinquant’anni fa comunità, comune, collettivo, vita in comune, assemblea, comitati erano un fascio di esperienze che venivano vissuti con entusiasmo. Esperienza comunitaria, ispirazioni comunitarie hanno caratterizzato quella generazione anche come una rivolta, soprattutto contro le istituzioni della tradizione: scuola, università, famiglia, forze armate, polizia, politica, chiesa e via dicendo. Era anche una rivolta contro l’individualismo borghese carrierista nel sogno, non so se realizzato ma almeno conclamato, di un nuovo ‘noi’, diverso da quello ereditato dalla storia. Da quel ‘68 sono nati movimenti molto contraddittori. Dall’altra parte il ‘68 è stato la festa di un nuovo individualismo: nell’università La Sorbona di Parigi, epicentro della contestazione, su un muro si leggeva ‘noi avremo un buon maestro quando io sarò maestro di me stesso’. Che è cosa di più dell’individualismo. Ma il ‘68 era una spinta vitalistica un po’ arrogante, un po’ ingenua che non sentiva il bisogno di spiegarsi con le categorie culturali della società di allora. Uno slogan in una scuola la diceva lunga: “io ho molto da dire ma non so che cosa”. Questo generava nella generazione più adulta uno sconcerto. Eppure c’era una volontà di afferrare il futuro. Lo slogan più diffuso era ‘siate realisti chiedete l’impossibile’. E gli slogan erano bellissimi. Tutto questo per ricordare che 50 anni fa si affermava prepotente un ‘noi’ collettivo e comunitario che si contrapponeva alle istituzioni rimproverando il burocraticismo. Allora parlare di comunità era miele. In mezzo secolo abbiamo assistito a una  grande distanza, non solo politica, culturale, ma soprattutto umana, una distanza profonda. Oggi abbiamo meno rete sociale umana e più web”.

Non mancano i riferimenti all’amico Vincenzo Paglia e al suo libro Il crollo del noi (Laterza). La riflessione si sposta sull’inversione di tendenza che si è verificata in mezzo secolo dalla comunità all’individuo, sul crollo dei legami umani, sul ‘noi’ indebolito dalla globalizzazione, sul vivere in una stagione di individualismo. Per Paglia viviamo il tempo dell’Egocrazia, generatore di vuoto perché l’uomo non è fatto per stare da solo. “Non avevo ancora letto il libro ma gli ho detto che il titolo è bellissimo, e il titolo è importante”, continua Riccardi. “La diffusa voglia di comunità, di socializzazione comunitaria non esiste perché viviamo in una marcata stagione di individualismo, ma non solo in Europa. Se pensiamo a un continente che per storia individualista non è, l’Africa, dove la famiglia è forte, ugualmente si sta verificando un fenomeno di frattura dei legami, con caratterizzazioni diverse ma in sostanza è così. Lo psicanalista Luigi Zoja ha scritto un libro piccolo ma intelligente dal titolo La morte del prossimo, dove si riflette sul fatto che negli ultimi 20 anni il concetto di prossimo si è allargato. Gli orizzonti sono divenuti globali. Oggi tutti sono prossimi anche se lontani, perché con i social media soprattutto, ma anche con gli altri mezzi di comunicazione, tutti entrano nelle nostre vite in ogni momento. Contestualmente, però, si sono indebolite le relazioni stabili, si sono erosi i contorni comunitari della vita. Il mio prossimo si è delocalizzato. Siamo uomini e donne spaesati. Gli uomini della mia generazione, quella dell’esodo, ossia del mondo pre-globalizzazione al mondo globalizzato, possono misurare il percorso di questo spaesamento. Ma chi è il mio prossimo? È una domanda che si trova nel Vangelo. È un mondo con poco prossimo vicino e con tanti lontani che si fanno prossimi. Zoja ha ragione quando afferma che i legami familiari, comunitari e ambientali si indeboliscono: è l’allentamento dei diversi tipi di prossimità. Nel mondo pre-tecnologico la vicinanza era fondamentale. Ora domina la lontananza, il rapporto mediato e mediatico, la mancanza di contatto”.

Altro focus lo slum e i pericoli nelle periferie del mondo. “Vorrei soffermarmi sulla crisi del legame comunitario come limite doloroso della nostra società. Non è solo un limite doloroso. Si discute molto in questi ultimi anni della radicalizzazione dei giovani islamisti. Io penso che ci sia anche una radicalizzazione dei giovani di origine europea, come il neonazismo mostra. Il fondamentalismo è una malattia che attraversa tutto il nostro mondo, non è solo la malattia di un aspetto o di una religione. I giovani figli di musulmani nati nei nostri paesi sono sottoposti a una condizione particolare ma il vero problema è quello delle periferie, che sono la terra della radicalizzazione, e la radicalizzazione oggi non solo avviene attraverso la rete sociale islamica ma sul web. Allora penso che quando parliamo di radicalizzazione, di sicurezza occorra guardare le periferie perché, è difficile dirlo in questa meravigliosa Sarzana, sono gran parte del nostro mondo. Nel 2006 è arrivato qualcosa che nessuno ha segnalato: per la prima volta nella storia dell’Umanità la popolazione mondiale ha cominciato in maggioranza ad abitare le città. Prima il mondo era campagna. Ma cosa vuol dire un mondo urbano recente? Vuol dire un universo di periferie, gli slum, abitazioni improprie, gente arrivata da poco, spesso senza legami. Sapete quanta gente vive negli slum? Il 31% , un terzo della popolazione mondiale vive in queste periferie casuali. La cosiddetta slumizzazione in Africa subsahariana arriva al 72%: i legami tradizionali si sono rotti, sono mondi senza comunità. Ma vorrei parlare di un’altra periferia più vicina a noi, quella di Roma, che ho seguito dagli inizi della Comunità di Sant’Egidio. Ho conosciuto la periferia degli anni ‘60 descritta da Pasolini, le borgate, un mondo povero, duro, però non era senza reti, che allora erano create dal volontarismo politico comunitario, non solo dai gruppi del ‘68. I partiti politici, primo il partito comunista, organizzavano la vita come un modello capillare che nelle periferie romane era secondo solo alle parrocchie: c’erano i sindacati, comitati di ogni tipo, in quel quadro povero c’era un tessuto comunitario. Questo tessuto negli ultimi due decenni si è dissolto. Eppure oggi le nostre periferie vivono l’impatto con il fenomeno migranti, e qui la sfida dell’integrazione. Ma l’integrazione è fatta dalle comunità più che dalle istituzioni o da realtà costruite senza volto. Dobbiamo rammendare le nostre periferie da un punto di vista umano altrimenti saranno problemi gravi. A Roma nel vuoto sociale si sono inserite le reti mafiose. La banlieue parigina è un deserto di legami comunitari”.

Il mondo globalizzato. “L’ottimismo ingiusto verso la globalizzazione ha lasciato spazio a un pessimismo diffuso e ingiusto, fatto di tante paure che accompagnano l’uomo e la donna globale. Oggi abbiamo paura della storia, di questo mondo mondializzato dove può arrivare uno tsunami che travolge i nostri universi privi di protezione. E infatti la questione della sicurezza è diventata prioritaria in ogni proposta politica che si sappia vendere agli elettori. Chi gira il mondo, chi frequenta grandi città del Sud del mondo quando torna in Italia si accorge che nonostante i problemi che ci sono le nostre sono città sicure. La paura è in noi. La paura della storia si mangia le risposte. E giocare la chiave della paura in ogni messaggio paga alla breve ma non alla lunga. Abbiamo bisogno di individuare dei nemici, oggi può essere l’immigrato domani una classe politica dopodomani potrebbero essere i giovani o gli anziani. Una delle espressioni più ricorrenti in tutta la Bibbia è ‘non abbiate paura’. La globalizzazione non l’abbiamo vissuta responsabilmente, le nostre vecchie reti si sono dissolte. Bisogna rispondere alle paure dell’uomo globale, ma la risposta non è fare una comunità contro”, spiega Riccardi. E poi il riferimento al pensatore ebraico Martin Buber e alla tensione comunitaria degli anni ‘30 di fronte al totalitarismo, secondo cui la comunità non è questo o quel modello ma una dimensione da coltivare, un tessuto di reciprocità che può essere ricostruito attraverso una relazione che si fonda sulla partecipazione, fondamentale per rendere l’io consapevole di non essere individuo ma persona. È la persona che costituisce un legame con gli altri. Secondo Buber la nostra epoca – “epoca senza casa” –  ha dimenticato il fondamento relazionale. Ed ecco la domanda: “Che ne è dell’uomo? Che ne è della comunità? Che ne è dell’unico spazio possibile dell’uomo con l’uomo?”. La comunità, quindi, come soluzione al problema dell’uomo. E come si fa la comunità? Secondo Zygmunt Bauman bisogna ‘fare il possibile e desiderare l’impossibile’. Continua Riccardi: “È un sogno antiglobalista? Dobbiamo andare a vivere in qualche parte isolata nel mondo?  Dobbiamo trovare più che risposte incentivi per vivere con responsabilità comunitaria il nostro tempo, e di questo ringrazio il festival che ci ospita. Nella storia di fronte al caos uomini e donne hanno sempre cercato di realizzare una comunità. Non c’è bisogno di fuggire. Bauman dice che c’è voglia di comunità intorno a noi. Dobbiamo essere meno vittimisti, anche se esistono dei problemi. Comunità non è solo un’eredità del passato ma qualcosa da reinventare: è un sogno, un amore, un legame, un tessuto di reciprocità, un modo di vivere con gli altri. Oggi più che mai è l’anziano il rivelatore del bisogno di comunità. I poveri sono spesso soli”.

E i libri sono i grandi testimoni della nostra epoca. Un’altra lettura consigliata da Riccardi è La solitudine del cittadino globale, di Zygmunt  Bauman, la globalizzazione che porta alla fine del sociale. Il focus del libro è sulla solitudine dell’uomo comune, su una socialità dai contorni sfocati, sulle politiche neoliberiste che hanno portato alla disgregazione del tessuto sociale esaltando la dimensione individuale e annullando la comunità reale. Per porre un freno a questo stato di cose per Bauman bisogna ritrovare lo spazio in cui pubblico e privato si connettono: l’antica agorà e il farsi la libertà individuale impegno collettivo. L’assenza di limiti e il disinteresse per il bene comune porta alla paralisi della politica, che deve ritrovare il suo spazio, ma non concentrando l’inquietudine solo sul tema della sicurezza personale. Conclude Riccardi: “Uno dei più grandi storici, Paolo Prodi, spiegava la storia dell’Europa come una tensione rivoluzionaria. L’Europa ha sempre avuto una tensione che ha spinto gli europei a uscire da sé. E uscendo da sé sono stati conquistatori, commercianti, mediatori, missionari… La tensione si è spenta, l’uomo solo non vive più tensioni larghe perché queste hanno bisogno di essere condivise. Emmanuel Mounier diceva che ci vuole una rivoluzione personalista e comunitaria. Per abitare la globalizzazione c’è un diffuso bisogno di comunità. Bisogna partire dall’individualismo, dall’’io’ col sogno del ‘noi’. La vita cambia per processi sociali che cominciano tra pochi e scoppiano tra molti”.

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